"Chi non mangia oca a San Martin non vede il becco di un quatrin". E' con questo proverbio della bassa padovana che può incominciare la storia di Michele Littamè, l'imprenditore agricolo di Sant'Urbano (PD) che dal 2001 si è lanciato nell'allevamento delle oche, arrivando oggi a 3000 capi all'anno, che vende, già macellati e trasformati, a ristoranti veneti e nelle fiere e mercati più importanti, oltre che nel punto vendita aziendale.
"Il proverbio - racconta Michele - è significativo di una situazione dei secoli passati, quando l'11 novembre, giorno di San Martino e del termine dell'annata agraria, oltre che del rinnovo dei contratti, il contadino portava le onoranze (spesso l'oca) e pagava l'affitto ai proprietari terrieri, andando a Padova con le scarpe rotte e tanta fame. Li vedeva sempre con nuova servitù, nuove carrozze, e associava la consegna dell'oca all'aumento della ricchezza".
Ha cominciato con un proverbio perché la tradizione le ha dato una mano in un momento di difficoltà?
E' proprio così. La mia è sempre stata una famiglia di allevatori di bovini da carne, e purtroppo dopo la prima crisi della mucca pazza nel '96 e soprattutto dopo la seconda, nel 2001, abbiamo rischiato di scomparire: tra laltro noi allevavamo la razza garronese, una razza di lusso che superava il peso previsto dalla griglia Ue per i rimborsi previsti. La situazione stava precipitando, quando una sera, attorno al tavolo con mia madre, abbiamo preso la grande decisione. Era un po' di tempo che giravo in Europa per aggiornarmi come allevatore, e in Francia avevo visto, nel Perigord, svariati prodotti a base d'oca: non bisogna mica pensare solo al foie gras! In più avevo una passione vera e propria per la cucina, basti dire che ho fatto il cuoco durante il servizio militare, ma soprattutto mi piace cucinare le specialità della nostra terra: polenta e musso, baccalà, lasagne con la lepre. Tutti piatti con sapori molto particolari.
Allora ho fatto uno più uno. Bisognava tornare alla tradizione, perché era l'unico modo di fare qualcosa che gli altri non facevano più e che una fetta di mercato poteva apprezzare. Così abbiamo pensato all' "Oca in onto", tipica di queste parti. Niente di diverso da ciò che in Francia viene definito confit. Per la conservazione in onto (detta anche oca in pignatto) le oche sono separate dalle loro parti grasse e tagliate a pezzetti. Le carni riposano sotto sale per alcuni giorni oppure sono cotte con erbe, aromi e un poco di vino rosso e, successivamente, si ripongono direttamente in un orcio di terracotta o vetro. Nella versione cruda si alternano pezzetti di carne a grasso d'oca fuso e foglie d'alloro, nella versione cotta invece si completa l'ultimo strato con il grasso fuso e si chiude il vaso.
E gli affari sono andati subito bene?
Benissimo, da un certo punto di vista, ma all'inizio non mi hanno dato il tempo di cucinare! Mi spiego meglio: con la storia della mucca pazza, sono stato subito "bombardato" da telefonate da ogni dove per vendere gli animali vivi: il primo anno ne ho avuti 400. Il secondo anno ho raddoppiato, ma nessuno mi chiamava più, si era tornati ai consumi tradizionali. Ed ecco che il Programma di Sviluppo rurale mi è venuto incontro: grazie alla misura dell'ammodernamento aziendale agricole ho potuto realizzare il primo laboratorio di macellazione e lavorazione. Nel 2004 ho usufruito poi di un altro bando per l'ammodernamento, col quale ho chiuso il cerchio: ho potuto installare un abbattitore di temperatura, una macchina per sottovuoto, un forno a convezione vapore, una brasiera, un quattro fuochi più forno, più tavoli da lavoro. Abbiamo anche recuperato uno stabile in rovina, un ex-tabacchiera; poi nel 2010 ho usufruito di un ulteriore finanziamento della misura 121 del Psr per costruire una struttura apposita per l'allevamento delle oche, cioè un tunnel con pavimento e impianto di alimentazione automatica dove le oche si riparano e vanno a mangiare.
Insomma, una vera e propria filiera dell'oca.
Siamo arrivati a proporre una linea completa di prodotti, fra cui la coscia d'oca in onto, petto 'oca affumicato, tagliata di petto d'oca, ma anche porchetta, salame , salsiccia, speck, ciccioli, fino all'oca burger, cioè l'hamburger fatto con l'oca. Oggi abbiamo circa 23 prodotti", e siamo un presidio Slow Food.
Quanto si sente di aver dato e quanto preso dal suo territorio?
Ho preso tanto dalla tradizione, recuperandola (si pensi che l'oca in onto era un modello di conservazione della carne nel grasso che sparì con l'arrivo di massa in queste campagne di frigoriferi e congelatori, negli anni '60) ma oggi credo anche di aver dato qualcosa di importante. Le faccio un esempio partendo da quello che è il mio mercato, raccontandole un aneddoto: qualche anno fa sono stato chiamato - tramite un amico comune - dal famosissimo chef del ristorante pluristellato di Padova "Le Calandre", Massimiliano Alajmo, che aveva saputo del mio allevamento di oche. Mi fece portare un'oca e poco dopo mi invitò a cena. Mangiamo i suoi piatti meravigliosi, e poi mi disse. "Questi sono fatti con la tua oca. Da oggi in poi sarò un tuo cliente!" . Infatti prima acquistava le oche all'estero, mentre ora aveva la possibilità di farlo a chilometro zero.
Ci sono state altre sinergie territoriali?
Molte altre. Ad esempio, io non conoscevo le tecniche di cottura, e lì mi è venuta incontro la Camera di Commercio di Padova con il progetto "Saperi e Sapori" dove - grazie anche all'aiuto della associazioni di categoria coinvolte e ai formatori - abbiamo acquisito i "saperi" dell'allevamento "latte e miele"(negli ultimi trenta giorni di allevamento, aggiungiamo una percentuale di latte e miele alle farine che noi stessi produciamo per l'alimentazione delle nostre oche) e delle nuove tecniche di cottura, che uniscono la tradizione con l'innovazione. Questo ci ha permesso di realizzare una linea di prodotti cotti in bassa temperatura e pronti all'uso che risponde alle nuove esigenze delle famiglie. Ci siamo inventati la festa dell'oca di san Martino, che da una settimana è diventata di un mese, e insieme alle associazioni dei ristoratori abbiamo puntato sulla stagionalità, coinvolgendo gli agricoltori e gli allevatori della zona: in primavera con piatti a base di asparagi del territorio, a dicembre con il cappone. Insomma, con le mie oche sento di aver contribuito ad attivare una rete su territorio che spero potrà portare a una crescita sempre maggiore.
Andrea Festuccia
PianetaPSR numero 33- giugno 2014
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